Valentina Falcioni, VICINANZE 2016

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“I dipinti di Elena Giustozzi sono una risposta piccata all’approssimazione odierna, alla bulimia comunicativa, alla superficialità emotiva con cui l’uomo si approccia all’universo esterno. Ogni esperienza pratica o affettiva viene fagocitata con la stessa voracità con cui si consuma un panino preconfezionato in un fast food. Non si è più in grado di vivere a fondo un’esperienza, coinvolgendo gradualmente tutti gli organi di senso. Si predilige la simultaneità. Mentre si mastica del cibo assemblato convulsamente, si controllano notifiche e messaggi sullo smartphone, si aggiorna il profilo su Facebook, si scatta un’istantanea del locale, si getta uno sguardo alla tv e si canticchia distrattamente la canzone trasmessa in radio. Tutto ciò avviene mentre di fronte è seduto, rigorosamente sul bordo della sedia, un altro commensale, la persona con la quale andrebbe assaporato l’attimo. In verità col diramarsi dei social network si è divaricato lo spazio fra gli esseri umani, si è accentuato l’individualismo e si è ridotta la percezione cognitiva dei sentimenti propri e altrui. I minuziosi dipinti di Elena invece obbligano l’osservatore a soffermarsi per cogliere il senso complessivo attraverso ogni singolo particolare che è stato riportato su tela con dovizia, placidità, abnegazione e innegabile pazienza.” (Valentina Falcioni)

Lucia Zappacosta, FRAMMENTI, MCDA 2015

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Le opere di Elena Giustozzi rispondono alla necessità di frammentare la realtà, di avvicinarsi come in un zoom in al soggetto quasi a cercare un contatto fisico, diretto, non mediato, emotivo. Le immagini rappresentate appartengono ad un tempo sospeso, irreale. Forse antico, forse presente. Si tratta di scene suggerite da piccoli particolari che evocano una realtà insolitamente familiare e intima. Dettagli, pose, presenze comuni ma vincolate ad una memoria universale, come a voler ricercare e a voler avere una rappresentazione psicologica dell’individuo e della società. Elena Giustozzi ha fatto del ritratto il proprio campo di ricerca e, nella frammentazione, deformazione e annullamento dei tratti identificativi del soggetto, ha trovato la sua forma espressiva per rappresentare le più profonde lacerazioni interiori dell’uomo e della società.
Parte dalla fotografia dalla realtà, Elena Giustozzi, la fa a pezzi e ne rappresenta minuziosamente solo alcuni frammenti attraverso una pittura dolce e raffinata con la quale conferisce il valore dell’eternità. Lavora su aspetti psicologici, intimi ma anche sociali e morali, alla ricerca di un equilibrio, di un dialogo, di uno scambio che sostituisca l’angoscia, lo spaesamento, la solitudine, l’estraneità, con una sensazione di appartenenza. I segni lasciati dal tempo e dagli eventi, esterni e interni, indagando la personalità e il carattere di chi ritrae.
Il senso di desolazione, di solitudine e di attesa sono i sentimenti che si provano davanti ai Frammenti di Elena Giustozzi: i suoi protagonisti umani e naturali sono immobili, come davanti a un obiettivo, le azioni sono come congelate e deformate nell’attimo del presunto scatto fotografico. Corpi ed elementi naturali che non nascondono il passare del tempo che li altera ma anzi che mettono in evidenza la trasformazione in atto. Identità nascoste e mascherate dove la maschera non è l’elemento aggiunto ma parte integrante, perfettamente adattata, del corpo ritratto. Sono opere che rappresentano gli aspetti più nascosti dell’intimo, colti come appaiono, nella loro naturalezza, crudi, profondi, senza finzioni e ipocrisie.

Cristina Petrelli, DISLOCAZIONI, MCDA 2014

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Dislocazioni consiste in un’installazione a parete di otto tele di dimensioni diverse. La funzione del muro è unicamente quella di offrire una superficie unitaria, senza nulla aggiungere ai singoli lavori. La distanza fra un pezzo e l’altro rimane incolmabile. L’episodio installativo è preceduto dal momento in cui l’artista riproduce una fotografia o meglio differenti particolari di un’unica immagine fotografica. L’acquisizione pittorica modifica la natura del referente, trasformando un medium tecnologico in un gesto artistico unico e irripetibile. Nel rappresentare fedelmente la fotografia, attraverso una tecnica minuziosa, l’artista ne dichiara il valore di referente privilegiato della pittura. Sin dalla sua scoperta i due medium hanno avviato uno scambio proficuo. Se da una parte la fotografia conferma il suo indiscutibile valore di testimonianza, dall’altra Elena Giustozzi con la sua pittura mette in risalto come questo non sia sufficiente. I volti, i corpi e i luoghi che vengono estrapolati dall’immagine e riprodotti nelle singole tele restano muti e impenetrabili. L’artista annienta la narrazione e rivela come l’intima natura della fotografia sia legata all’istante. I due medium vengono a contrapporsi anche per velocità e lentezza e viene sottolineato lo scarto temporale. Tra le tele della Giustozzi e il referente esiste un divario cronologico e questa distanza è palesata nella scelta dei particolari. L’artista si sofferma sulle zone periferiche dell’immagine, sulle figure prive di attributi identitari e sui volti tagliati e posti uno lontano dall’altro. Si vengono ad annullare le possibili relazioni fra un soggetto e l’altro e questo provoca l’impossibilità di costruire un ricordo. In tal modo, l’ipotetico album di famiglia in cui la fotografia troverebbe legittimazione, non ha più senso di esistere. Nasce il dubbio sulla presunta semplicità di lettura dell’immagine fotografica. La dislocazione invocata nel titolo avviene su più piani: spaziale, temporale e semantico. Nell’offrire un’immagine densa di riferimenti e fortemente evocativa, l’artista ne dichiara la profonda complessità e l’impossibilità di un’interpretazione univoca. Fermo la mia scrittura perché la mia attenzione viene catturata da una fotografia piena di uova. Differenti nelle dimensioni e nei colori, mi ricordano la fattoria in cui viveva un nostro amico e l’aver sfidato la neve e le strade gelate per un compleanno da festeggiare. Ma questo voi non potete saperlo.

Nikla Cingolani, REFERENZE INCROCIATE in DISLOCAZIONI, Studio Design, San Benedetto del Tronto 2014

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Nel corso del tempo la storia non ha mai mancato di smentire alcune previsioni o giudizi dettati da personaggi più che autorevoli, iniziando dal faraone Thamus nel Fedro di Platone il quale giudica la scrittura nemica della memoria “Perché esso (l’alfabeto) ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei”. Ci sono voluti secoli prima che Marcel Proust dimostrasse come utilizzare la scrittura senza sminuire la memoria. Un simile esempio si ha nel giugno del 1839 quando Paul Delaroche, uno dei pittori più famosi in quel periodo, fu incaricato a capo di una commissione nata per presentare l’invenzione di Daguerre al governo francese. Ignaro del fatto che una frase lo rendesse più famoso delle sue opere, sembra che davanti al dagherrotipo disse “Da oggi la pittura è morta!” Fosse stato meno pessimista e più avanguardista, avrebbe detto “Da oggi la pittura è mostra!” Tuttavia riconobbe “l’immenso servizio” che la nuova scoperta portava all’arte. La nascita di nuovi medium ogni volta ha liberato quelli precedenti, così come la Fotografia e il Cinema hanno affrancato la Pittura dall’obbligo di rappresentare la realtà. Mentre la Fotografia cercava di imitarla per innalzare la tecnica alla dignità del quadro e il Cinema ne riproduceva l’incanto, la Pittura finalmente libera poteva avventurarsi in nuove esplorazioni percettive. Sin dall’inizio della loro apparizione i pericolosi killer tecnologici, trasformati in innocue presenze, l’hanno affiancata in quel percorso di ricerca estetica ed etica dell’arte, influenzandosi a vicenda. Grazie ai nuovi compagni di lavoro la Pittura si è valorizzata, arricchita, servendosi delle loro competenze per cercare di riorganizzare e affinare la propria esperienza percettiva. L’opera di Elena Giustozzi ruota intorno a questo concetto. Intersecando le informazioni tra le varie discipline riesce con la sua Pittura, morbida e raffinata, ad esaltare la Fotografia in tutta la sua identità materiale completando le installazioni come sequenza filmica. La scelta dell’artista ricade sul vecchio ritratto di un nucleo familiare con i personaggi in posa, ciascuno al proprio posto, con i volti concentrati, vestiti di tutto punto per la grande occasione. E’ una foto che colpisce per la sua messa in scena, per la sua artificiosità, per il suo aspetto consumato dal tempo. Se l’identità dell’immagine è stata fondata dalla pittura, la fotografia ne ha superato i limiti, direbbe Roland Barthes, per porci di fronte alla realtà in virtù di un’oggettività che ne rappresenta l’essenza.
La foto viene osservata, analizzata, anatomizzata e infine messa in posa ogni parte. Il mistero della rappresentazione è esaltato dal ritratto ingigantito dei singoli frammenti, compresi tutti gli elementi presenti sulla pelle cartacea, sgualciture o graffi che siano. La natura della “cosa”, un pezzo di carta con impressa una qualsiasi riproduzione del mondo, viene rivelata dalla descrizione minuziosa eseguita a mano con il piacere da parte dell’artista di vivere per ogni dipinto la durata di attimi remoti. Non ricorre alla memoria per rappresentare il passato, piuttosto ne libera le forme così da elevare il frammento in istante astratto che abbia il valore dell’eternità. Solamente ciò che è concreto conduce all’astrazione. L’opera in toto si presenta come una sequenza di montaggio senza raccordo basato sul dettaglio ravvicinato, dove lo spettatore può organizzare la propria messa in scena, costruire liberamente la sua trama, fino a scoprire l’apogeo. Il ritmo visivo scandito dalla dinamicità dello sguardo per cogliere l’insieme, stimola l’immaginazione mostrando tutta la poesia di ciascun particolare costruito sull’esclusiva scala di grigi. Il discorso si sposta ancora sul gesto pittorico sublimato dalla perfezione d’esecuzione con le gradazioni tonali che evocano a tratti il rigore del Cinema monocolore. Un’operazione concettuale con la quale Elena Giustozzi dimostra la complessa capacità di attivare in chi guarda la propria recherche individuale, così il dettaglio di un panneggio, di un vestito, il gesto di una mano, un vaso di fiori, diventano le madeleine con cui iniziare il viaggio.

Piero Orlandi, FAMILIARE, testo della mostra, Spazio Lavì!, Sarnano 2014

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1
Queste non sono foto di viaggio. Le foto di viaggio cercano di interpretare i luoghi, esplorandone la diversità, l’eccezionalità. Qui sembra piuttosto che siano i luoghi a esplorare la persona che li attraversa, riflettendone lo sguardo carico di interrogativi, perfino di apprensione.

2
Elena è una pittrice che spesso ha usato la fotografia di archivio, traendone degli appunti, degli spunti per la sua pittura. In questo caso invece non usa le fotografie che produce, ma si esprime direttamente con esse. Non fa ciò che fecero l’urbanista Gordon Cullen o lo storico dell’arte Federico Zeri, che relegarono la fotografia in un ruolo ancillare delle loro proprie discipline, sfruttandola come strumento, di riproduzione delle pitture in un caso, di sfondo per gli schizzi urbanistici nell’altro. Elena transita dalla pittura alla fotografia, entra nel campo della fotografia cercando di avere da lei qualcosa di diverso da ciò che le dà la pittura.

3
Prima di essere una pittura, quel paesaggio c’è, è là, aspetta di essere ritratto. Nel caso delle fotografie, di queste fotografie, il paesaggio non aspetta, è subito ritratto, è subito qui, dentro il nostro occhio-pancia che è la macchina fotografica. E’ già entrato in noi prima che lo vedessimo davvero, prima che ne avessimo il tempo. E adesso lo guardiamo in fotografia, è adesso che lo guardiamo veramente. O meglio, è lui che ci guarda, che sente il nostro umore, la nostra temperatura emotiva, e la modifica, la trasforma in un’altra, diversa da quando gli eravamo davanti e lo fotografavamo.

4
A volte è a fuoco il vetro del bus, a volte è a fuoco il paesaggio lontano, l’orizzonte, a volte quello vicino, lungo la strada. A volte è in movimento, a volte fermo. Il paesaggio che sfreccia è il contrario della veduta e del paesaggio incorniciato caro ai giardini cinesi. Là ci sono valori fissi, qui valori mobili, effimeri, transeunti, instabili.

5
Vediamo luoghi brumosi, un po’ inospitali, poco densamente popolati, luoghi in un lembo imprecisato della Turchia. C’è poco compiacimento estetico, gli antecedenti di ciò che Elena ci mostra non sono nella letteratura, nell’arte, ma nella geografia, nella politica, nell’antropologia, nella storia. Non posso porre le vedute di Vermeer come antenati di questi paesaggi, né i le prose d’arte dei grandi viaggiatori da Goethe a Stendhal a Piovene; posso invece trovare la stessa necessità di indicare che sta in una carta geografica, la stessa necessità di informare che sta in un manuale di storia: questo luogo è così perché non è mai stato abitato e le ragioni sono queste, gli uomini che lo popolano saltuariamente vivono in questo modo, hanno questi caratteri.

6
Elena ha voluto intitolare “familiare” questo lavoro. Perché? Cosa c’è di familiare in un viaggio in Turchia per chi – come lei – non c’è mai stato in precedenza? C’è la ricerca di un punto di luce, di un riflesso, di un’erba, di un sasso che vediamo lì, ma sappiamo che potrebbe anche essere a casa nostra, mille o duemila chilometri lontano, nel nostro Appennino marchigiano che ci manca, da cui veniamo, che portiamo nel cuore, che ci è così familiare. La familiarità vogliamo trovarla a tutti i costi in questi scorci, per sopravvivere in seno a loro, per non averne paura. L’assenza di familiarità spinge alla ricerca di familiarità.

Simona Cardinali, RAMMEMORAZIONI #2 2014

GALLERY

Negli anni ’20 dell’ottocento quando venne presentato al mondo il primo esempio di fotografia, la sensazione dell’uomo fu quella di essere stato derubato della propria anima. Spersonalizzata si presentava l’immagine impressa dalla luce con l’intervento dell’azione dell’uomo ridotta a gesto meccanico. Lo stesso processo si eleva al cubo nella nuova era digitale dove lo schermo freddo del computer depura ancor più l’immagine togliendo un ennesimo strato di anima ai soggetti prescelti. Nell’epoca contemporanea, le foto di ritratti, dove si era innescato quello stesso processo di sterilizzazione dell’immagine, assumono in particolar modo quell’aurea di melanconia ed emozione che un tempo spettava alla pittura. Si innesta qui Elena Giustozzi, avviando una profonda riflessione artistica sul processo di estinzione dell’anima a partire da fotografie di ritratti di famiglia trovate nella Fototeca della Biblioteca Comunale Mozzi Borghetti di Macerata. La famiglia, i suoi controversi legami sanciti dal sangue e dalle radici divengono per l’artista la base per creare una sorta di memoria universale, di tempo sospeso in cui è possibile far circolare tutti i sentimenti e ambivalenti sensazioni che maturano nel nucleo sociale originario. Annota l’artista quella sensazione di appartenenza e quella di straziante estraneità; la famiglia come luogo delle relazioni e la famiglia come il terreno spiazzante di un legame dovuto ma crollato. Nasce qui la serie di piccole scatole illuminate, i LightBox in mostra a Palazzo Pianetti nel boudoir dell’appartamento ottocentesco. I contorni sfumati delle foto d’epoca , carichi di senso pittorico, si celano dietro allo sterile schermo trasparente che si fa vetrina di una memoria gelata, di legami spezzati e ricomposti secondo una logica estetica. Piccoli frammenti di vita e di relazioni cui è stata staccata la spina per essere poi riaccesa secondo un nuovo ordine verticale. Si illuminano i piccoli segmenti umani luminosi, in uno degli ambienti più privati del palazzo e l’impressione è quella che le algide figure, anche grazie alla particolare atmosfera che si respira in questa sala, ristabiliscano tra loro un significativo contatto .

Paola Ballesi, TRANCHE DE VIE, testo della mostra, Centro Luigi di Sarro, Roma 2013

SORELLE

DISLOCAZIONI

“La sua pittura nasce da un complesso di esigenze espressive messo a reagire, fin dall’inizio, con una ricerca la quale non indulge a scorciatoie, e mira, anzitutto, a essere all’altezza del mestiere”. Sono le parole con cui Roberto Cresti rende immediatamente flagrante la cifra artistica di Elena Giustozzi, la sua non comune ricerca strettamente legata al mestiere e risolta in una poetica che con solerte determinazione predispone il dispositivo tecnico e concettuale necessario perché la pittura si riappropri del codice della rappresentazione ed in particolare del motivo del ritratto, sfidando la fotografia sul suo stesso terreno. Un dispositivo che, come ben ricorda il professore, è il risultato di un lungo praticantato presso la cattedra di tecniche pittoriche dell’Accademia di belle arti di Macerata la cui titolare, Marina Mentoni, pittrice colta e raffinata, è una guida senza pari per quanti desiderino approfondire e passare al sottile scandaglio dell’indagine analitica il linguaggio della pittura, filtrato attraverso lo spettro dei suoi segreti, delle sue possibilità e dei suoi limiti.
Al dato di fatto che dalla metà del XX secolo nell’arte occidentale il declino dell’interesse verso le rappresentazioni figurative a favore dell’astrattismo, ha portato al ridimensionamento della produzione di ritratti, affidati sempre più spesso alla fotografia, Elena Giustozzi sulla scorta di altri modelli esemplari, da Lucien Freud e Francis Bacon fino ai più recenti Francesco Vezzoli e Chuck Close , oppone la fascinazione del ritratto dipinto per rendere di volta in volta manifesto il prodigio della rappresentazione pittorica di fronte alla quale anche lo sguardo più avvertito resta soggiogato. I suoi lavori, infatti, approntando un fecondo cortocircuito tra pittura e fotografia mettono in evidenza la funzione simbolica dell’immagine e del suo potere. Come attraverso il riflesso di uno specchio, ora deformante, ora selettivamente mirato su particolari giovandosi di potenti tagli orizzontali o verticali che fanno flettere vertiginosamente il punto di vista, ora destrutturante l’immagine in frammenti ricomposti secondo un ordine solo apparente, l’artista porta allo scoperto il meccanismo ermeneutico che la rappresentazione puntualmente mette in atto per sollecitare l’immaginazione dello spettatore inchiodandolo ad interrogativi ineludibili.
Il sapiente montaggio di inquadrature semplici e asciutte come scatti fotografici che colgono la retorica del quotidiano, ci mette di fronte ad un’umanità intrappolata nelle sue convenzioni, abitudini e nevrosi, nei suoi riti e nei suoi miti, da cui non riesce ad emanciparsi perché da lei stessa creati. Così l’artista tesse il racconto muto della vita che scorre inesorabilmente scandito da esistenze omologate nella fissità della posa, frammentate in sparse suggestioni e raccolte nell’archivio della memoria. Quella di Elena Giustozzi è una sorta di pietas che la porta a frugare tra le trame del tempo per catturare tranches de vie, frammenti e spezzoni di vissuti sepolti in angoli nascosti, dietro porte e tendaggi, oppure, memore della lezione di Roland Barthes, racchiusi e custoditi nel particolare, nel punctum, ed ecco allora l’inquadratura calata su una calzatura, un orlo di vestito, un polsino, un bottone. Nelle più recenti installazioni la fotografia prende il sopravvento sulla pittura, ma per esaltare ancora di più l’intrigo percettivo e concettuale, e svelare l’essenza della pittura con un’operazione che ricorda i memoriali di Christian Boltanski. Tuttavia qui la memoria non prelude alla morte né si risolve nel rituale, ma diventa traccia di scritture esistenziali che ammiccano lo spettatore perché entri nell’opera dove può assaporare residuali aromi di esistenze uniche ancora percepibili in questi frammenti di storie in bianco e nero ingiallite dal tempo che una volta risvegliate al calore e colore del palpito vitale dell’amore e della cura ci interrogano sul senso della vita.

Paola Ballesi, RETORICA DEL QUOTIDIANO in Opere 2008-2012. Galleria Comunale Vincenzo Foresi, Civitanova 2012

LE MIE FAMIGLIE

RAMMEMORAZIONI

SORELLE

Da sempre la pittura è stata il luogo elettivo del rinvio simbolico che ha come presupposto la nostra condizione di “esseri simbolici”, cioè di esseri che non si fermano di fronte a ciò che appare ai sensi, ma costantemente indotti dalla loro stessa indole guardano attraverso per vedere al di là del puro dato percettivo. L’arte in generale e la pittura con suoi particolari dispositivi simbolici ha l’onore e l’onere di tenere unito e ricucire di volta in volta questo doppio strato di realtà: quello che sta al di là dell’esperienza fattuale e logico-dimostrativa, che ci è come nascosta da un velo, e quello che il velo stesso ci mostra con approssimazione nel doppio gioco dello scoprimento e del nascondimento. E’ nell’assumere il ruolo di segno iconico o aniconico che sia, che la pittura ha consentito il dischiudersi della dimensione “supra-sensibile” e “supra-razionale” dove gli esseri umani incontrano il mondo delle realtà immateriali, idee e sentimenti che per chi li contempla e ne partecipa non sono meno reali di quelle materiali in particolar modo quando, scalando le sublimi vette dell’immaginazione e scorazzando per lungo e per largo nelle smisurate distese dei molteplici e variegati registri della produzione simbolica, si toccano i picchi più alti del pensiero e le profondità più nascoste del sentire
I lavori di Elena Giustozzi evidenziano in maniera esemplare questa funzione simbolica dell’immagine e del suo potere mettendo in rapporto il soggetto e l’oggetto come attraverso il riflesso di uno specchio ora deformante, ora selettivamente mirato su particolari con potenti tagli orizzontali o verticali che fanno flettere vertiginosamente il punto di vista, ora fedele ma intrigante nel sollecitare l’immaginazione dello spettatore, in definitiva portando allo scoperto il dispositivo eminentemente ermeneutico che l’immagine mette in atto. La giovane artista emergente nel panorama marchigiano e che già ha all’attivo significativi riconoscimenti in ambito nazionale, ha fatto una scelta di campo restituendo alla pittura lo statuto originario di luogo della rappresentazione e dell’esperienza simbolica che nell’immagine ha il suo strumento elettivo. In queste tele vengono sapientemente toccate tutte le corde della raffigurazione che immediatamente impatta la nostra percezione nel senso che fornisce l’informazione visiva sufficiente (la somiglianza) per permettere all’osservatore di vedere (riconoscere) l’oggetto stesso. Ma in esse risulta con altrettanta evidenza una tensione volta a rendere la rappresentazione “autonoma” trattandosi di immagini che tendono a sciogliere il riferimento ad oggetti e personaggi reali per acquistare un’identità in sé, un’autonomia appunto giocata su “tipi”, su “universali”, magari semplicemente affidati ad un paio di scarpe o a delle gestualità che pur nella loro singolarità evocano un carattere universale. Nello spazio dell’immagine il particolare annega e si confonde per creare le condizioni del rinvio simbolico, per pescare in profondità e raggiungere in maniera più o meno subliminale il dato concettuale nascosto nella sequenza narrativa che ha del racconto epico. Un racconto costruito sul sapiente montaggio di inquadrature semplici e asciutte come scatti fotografici che colgono la retorica del quotidiano mettendoci di fronte ad un’umanità intrappolata nelle sue convenzioni, abitudini e nevrosi, nei suoi riti e nei suoi miti, da cui non riesce ad emanciparsi perché da essa stessa creati.
Sono tranche de vie catturate da un occhio indiscreto che indugia su frammenti e spezzoni di vita frugando tra le pieghe dei tendaggi e delle stoffe per catturare, rinviandolo, il senso dell’esistenza. Il punto di vista ribassato che inquadra scorci di pavimento per catturare il colloquio muto tra due paia di calzature, che chiamano in presenza i rispettivi proprietari, diventano l’indice pudico e discreto dell’umanità in cammino sul crinale esistenziale. La poetica dell’artista trova il suo timbro più proprio nel tono basso affidato al bianco e nero, virato spesso nei toni patinati che conferiscono al dipinto la fisionomia di una vecchia fotografia ingiallita, intercalato da fremiti verso un’emozione improvvisa, in cui il quotidiano incontra per un attimo lo straordinario, per poi subito ripiegare su di sé. L’esterno del mondo catturato con una tecnica sapiente e sublime fa tutt’uno con l’interno dei palpiti dell’anima, ne è l’immagine speculare. Il dispositivo del dipinto più che catturare la vita è la vita stessa nella sua possibilità o impossibilità di trascendersi, di aprirsi all’altro da sé traguardando l’orizzonte verso una fuoriuscita salvifica. Sono immagini mute che rendono palese la loro intraducibilità in termini verbali e dunque l’alto potenziale simbolico in esse racchiuso. Alla percezione dell’immagine su cui si deve indugiare perché proprio qui si manifesta ciò che deve essere colto e ciò su cui si deve attirare l’attenzione si affianca la sua drammatizzazione immaginativa che ci invita a rapportarci ad essa appunto come ad un racconto che si dispiega davanti ai nostri occhi. Ma la loro magia sta nel rendere evidente il ruolo dello spettatore considerato che lo spazio figurativo smette di essere il luogo circoscritto entro cui si raffigura una scena determinata e diviene parte di un gioco più vasto che lo coinvolge, sia come soggetto che immagina, diventando il testimone occulto o palese dell’evento, sia come destinatario di uno sguardo o di un’azione che proprio a lui si rivolge, in ogni caso sempre chiamato ad assumere un ruolo attivo nella scena raffigurata.
In conclusione i dipinti di Elena Giustozzi che, rispetto alle produzioni più spericolate ed esasperate dell’arte contemporanea, coraggiosamente si impongono per le raffinate qualità tecniche esaltando il ruolo della pittura e della tradizione, sono in realtà delle trappole concettuali anche per gli spettatori più distratti e disincantati, mentre diventano potenti stimolatori di idee e viatico spirituale per coloro che cercano di arricchire la propria vita con la luce che promana dai cosiddetti beni immateriali unico nutrimento della nostra anima e speranza per la nostra vita.

Roberto Cresti, LA MEMORIA, PROBABILMENTE in Opere 2008-2012, Galleria Comunale Vincenzo Foresi, Civitanova 2012

LE MIE FAMIGLIE

RAMMEMORAZIONI

SORELLE

LA MEMORIA, PROBABILMENTE

Edipo e la Sfinge

Anselm Kiefer, in una lunga intervista a «il Manifesto», risalente ormai a quasi un decennio fa, dichiarava che la rivolta studentesca e in genere giovanile del 1968-69 era stata, nell’allora Repubblica Federale Tedesca, «un movimento per la memoria». Memoria a breve e a lungo raggio: da un lato, cioè, relativa ai fatti della seconda guerra mondiale, in gran parte rimossi o edulcorati dal sistema scolastico nazionale, e quindi poco presenti nella coscienza dei più giovani; dall’altro relativa all’immaginario germanico in sé stesso, soppiantato dall’ingerenza della cultura – e specificamente dell’arte – statunitense, che, facendo leva sul senso di colpa collettivo, aveva preso il posto non solo della tradizione autoctona, ma anche delle espressioni artistiche che, come l’Espressionismo e la Nuova oggettività, pure non avevano avuto nulla a che vedere con il Nazismo e le sue stragi. Dietro la dichiarazione di Kiefer si avvertiva ancora l’influenza dell’opera e della persona stessa di Joseph Beuys – nell’arte tedesca la principale fonte di memorie della guerra e delle sue tragedie –, che peraltro traspare, come un punto di partenza e tuttavia di molteplice e autonomo sviluppo, anche nel lavoro di artisti quali A. R. Penk, Georg Baselitz, Jörg Immendorf e Markus Lüpertz.
Chi però, in quel quadro di rammemorazioni storiche imbarazzanti e di riprese identitarie, percorreva già, anche per ragioni generazionali, una propria autonoma strada, era Gerhard Richter, il quale, transfuga dall’altra Germania nel 1961, aveva lentamente declinato i dogmi del realismo sociale (da lui assunti comunque con grande perizia e acume) in una sottile ricerca di memorie familiari o di contesto sociale ove – non senza un’inevitabile senso critico, ma anche con un distacco a dir poco glaciale – apparivano fotografie rifatte a olio (con nomi non corrispondenti al soggetto ritratto) di zii in uniforme dell’esercito, diplomatici di regimi filofascisti, profili di signore alto-borghesi, volti di ragazze tipo ‘fototessera’, prostitute in posizioni oscene o anche maliziose, persino un rotolo di carta igienica, solitario e pendulo da una parete.
Spesso l’immagine non risultava ‘a fuoco’, anzi era decisamente sfuocata, a fare intendere che, nella anonima fissità di soggetti, pur marcati in vario modo dal corso della storia, la vera memoria era nella pratica della pittura, nella sua possibilità di esserci ‘malgrado tutto’, come se l’artista dovesse affermare due concetti in uno, ovvero: «questo è un quadro a olio dipinto nel tempo – per citare liberamente il titolo del saggio di Walter Benjamin – della riproducibilità tecnica dell’arte».
Il significato era molto semplice. Richter in quel modo diceva: «Io». E non è un caso che proprio a quel tema una grande poetessa come Ingeborg Bachmann dedicasse, alla fine degli anni Cinquanta, una delle sue lezioni all’Università di Francoforte. Finché quel tema stesso e il ‘malgrado tutto’ riapparvero poi, a volte con ampi debiti verso la pittura (forse dello stesso Richter), nel nuovo cinema tedesco degli anni Settanta, ossia nei film di Rainer W. Fassbinder, Werner Herzog e Wim Wenders.
La Sfinge della storia era stata così interrogata da un nuovo Edipo, il quale intendeva strapparle il segreto relativo forse a cosa vi fosse nello stesso luogo prima di lei: la Sfinge, ovviamente, era la Germania e il suo passato. Richter dipinse, nel suddetto periodo, Die Sphinx von Gise (1964); e Kiefer avrebbe dedicato alla memoria della Bachmann la grande piramide intitolata la Tua e la Mia e l’Età del Mondo (1997). Varrà forse la pena ricordare che Martin Heidegger aveva citato, nel saggio Perché i poeti? (1950), il seguente passo di una lettera di Rainer Maria Rilke: «la nostra coscienza abituale occupa il vertice di una piramide che si allarga così profondamente in noi (e in un certo modo sotto di noi) che quanto più ci riconosciamo capaci di sprofondarci in essa tanto più universalmente sembriamo inclusi nelle datità aspaziali e atemporali dell’esserci terreno, cioè dell’esserci mondiale nel senso più ampio».

Un bottone, un mantello

Ora la Sfinge, ossia la storia, non soltanto ovviamente tedesca, è il presidio della nostra piramide interiore: è il guardiano della soglia oltre la quale la nostra memoria aderisce alle «datità aspaziali e atemporali dell’esserci terreno». Essa però ci sbarra il passo, chiedendoci di rivolgerle le giuste domande, che sono tali solo se appartengono al nostro tempo. L’arte tedesca degli anni Sessanta-Settanta c’è riuscita, e perciò costituisce, nell’insieme, un punto di riferimento per tutti gli artisti che cerchino di riconnettersi al passato per l’intima necessità non di restaurare ‘valori tradizionali’ ma di dare alla tradizione una forma presente.
Elena Giustozzi è fra questi. La sua pittura nasce da un complesso di esigenze espressive messo a reagire, fin dall’inizio, con una ricerca la quale non indulge a scorciatoie, e mira, anzitutto, a essere all’altezza del mestiere. Assurdi decreti didattici, simili ad un realismo socialista ‘a rovescio’, associati a quello che Beuys chiamava il «realismo capitalista» (ovvero la pop art e la sua ideologia modernizzatrice) hanno fatto sì che, nel nostro Paese, si sia perduta la vivente memoria dell’arte. È venuta meno, cioè, la trasmissione del fare ‘senza parole’, che per esempio gli allievi di Giorgio Morandi, all’Accademia di Belle Arti di Bologna, potevano ricevere semplicemente vedendo il maestro all’opera.
Quale spiegazione avrebbe potuto essere all’altezza di ciò che la mano di Morandi stava facendo? E cosa, più del risultato di quel fare, avrebbe motivato un allievo a cercare d’ottenerlo in proprio (magari senza riuscirci) per tutta la vita? Ogni tratto di bulino sulla lastra, ogni tocco di pennello, era un’interrogazione, a sua volta ‘senza parole’, della tradizione; e dalla memoria di una tela di Chardin o di un affresco di Piero della Francesca nasceva, come per immacolata concezione, ma anche per reiterato amplesso, un collo di bottiglia o un accordo di toni in un paesaggio. Mi pare, non credo di sbagliare, che Elena Giustozzi si sia formata così, e che ciò sia stato reso possibile da una guida, che, all’Accademia di Belle Arti di Macerata, e stata Marina Mentoni: docente capace di conservare, in anni poco grati, il culto intelligente del mestiere e di trasmetterlo, anche col suo lavoro di artista, ai propri allievi.
Chi conosce quel lavoro sa che Marina Mentoni è una pittrice di monocromi, ma è soprattutto una pittrice di rapporti tonali, pur proposti senza una forma che non sia geometrica. E proprio tale propensione si è trasmessa all’allieva, facendole percepire l’esistenza, sulla superficie pittorica, di una sorta d’illuminazione spaziale a priori ma dalle infinite sfumature: l’aurora necessaria a dipingere poi qualsivoglia soggetto. Questa, in breve, è stata la lezione essenziale che, come per miracolo in un’Accademia italiana, Elena Giustozzi ha ricevuto in anni ancora recenti.
Ma era già in cammino per la propria strada. E non si sbaglia a indicare come la pittura ‘pura’ sia entrata, in lei, in contatto con altri linguaggi, mettendosi alla prova e disperdendosi, per poi rifarsi sintesi. L’aurora suddetta ha preso alle spalle la realtà: l’ha illuminata dallo specchio convesso di una mente senza tempo, nella quale suggestioni matematiche, che l’interessata stessa dichiara d’aver subito, si sono unite allo strano empireo che, da Van Eyck al nostro Piero, fino a Velàzquez, a Vermeer e a altri Olandesi del Seicento, appare nella vita quotidiana. Un empireo che fu proprio dei pittori romantici tedeschi, in specie di Friedrich, e che è riemerso ‘malgrado tutto’ nella pittura di Richter.
Elena Giustozzi condivide con Richter non soltanto una memoria dell’arte, ma l’orientamento a fare della pittura una opposizione ‘senza parole’ alle ideologie novecentesche –, che, nel nuovo secolo, hanno la perfidia, come Satana secondo Baudelaire, di far credere di non esistere. Reclama cioè il diritto all’Io come fondamento non privato, che nessuno certo le vieterebbe, ma pubblico della propria pittura, affermando, semplicemente, di essere un’artista in virtù del ‘come’ sono eseguite le sue opere, della completa pregevolezza della loro fattura. Anche nel suo caso la fotografia, da cui esse partono, nasconde palesemente la ricerca dei toni del colore, delle ombre, in un processo creativo nel quale il soggetto non è quello apparente, ma è la pittura stessa.
Questa è la prima, fondamentale domanda-risposta che l’artista indirizza alla Sfinge del nostro tempo: alla storia murata nell’immagine mondiale ‘pre-vista’ dal falso movimento del ‘villaggio globale’: non-luogo privo di Io, – a meno che non si tratti di soggetti isolati. Ed è su tale base che vengono i suoi contenuti, secondari ma non occasionali. La memoria della pittura consente l’apparizione di souvenirs pieux, di trame familiari, di letterali ‘sentimenti’, che si sfiorano come una mano ne accarezza un’altra. Le mani, nella storia dell’arte, dalle lunghe dita delle madonne gotiche a quelle nodose che ossessionavano Van Gogh, sono la metamorfosi di ali angeliche: ora eterei preludi di contatti ora calli da levigare. E anche qui non importano i nomi, bensì la sottile dinamica dei rapporti che legano padri, madri e figli, sorelle e amiche; le trame invisibili che il pennello anima nella loro apparente fissità fotografica. L’opera va sempre cercata in tale ‘scarto’, ponendosi a diversi punti di distanza dall’immagine; ed è l’artista a suggerire tale movimento, ingrandendo anche relazioni fra particolari fino a farne dei soggetti.
In certi casi un bottone, la piega di una giacca, il polsino d’una camicia raccontano memorie sfumate, che sono tuttavia la vera storia del contesto dipinto: a volte vi traspare anche il decoro e la discrezione che abbiamo perduti, e che forse cominciano a cercare nuovamente certi giovani: artefici ‘senza parole’ di un nuovo ‘68 ‘a rovescio’, ove il «movimento per la memoria», che fu già dei ragazzi tedeschi e dei loro artisti, consiste nel pretendere di non fare ‘un lavoro come un altro’, nel chiedere onestà a chi amministra una qualsiasi istituzione, o che un docente conosca la disciplina che insegna e un pittore sappia dipingere davvero.
Si tratta in genere di ridare una forma vivibile, equilibrata, a ciò che l’ha perduta, ricordando cosa manca al nostro tempo, alla sua cultura e alla sua arte. Mi sembra così, in conclusione, che – oltre la soglia della Sfinge e nella risonanza della grande piramide su cui tutti camminiamo – le cose che Elena Giustozzi ci mostra attualizzino, in pittura, un altro decisivo passo epistolare di Rilke (riportato da Heidegger nel suddetto saggio): «Per i nostri avi […] un abito posseduto, il loro mantello, […] quasi ogni cosa era un recipiente in cui rintracciavano e conservavano l’umano». Quel «recipiente» riappare oggi nelle sue immagini ‘a futura memoria’.

ROBERTO CRESTI

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